giovedì 15 settembre 2016

I CANI: NELLA BUONA E NELLA CATTIVA SORTE




Non è un caso che tanto di loro si sia parlato e siano apparsi in struggenti fotografie: a fronte di tutti gli altri animali coinvolti, che, ad eccezione dei gatti, sono stati riuniti nell’unica distorta espressione di “animali da allevamento” e valutati esclusivamente in termini di danno economico per i “proprietari”, loro appartengono alla specie  tra le più amate in assoluto nel mondo occidentale e di conseguenza siamo pronti ad accoglierli nel nostro paradiso di santi e di eroi e nel nostro inferno di dolore.



Sono anche l’esempio più fulgido del relativismo che accompagna e definisce tante delle rappresentazioni di tutti gli altri animali: perché non va proprio dimenticato che sono sempre loro, i cani, ad essere disprezzati, demonizzati e usati come cibo in alcuni paesi, soprattutto  dell’Asia ma non solo, dove vengono in genere uccisi a bastonate e magari bolliti ancora vivi, perché così la carne è più buona. All’incremento del loro consumo, quale preziosa fonte proteica, ha incitato recentemente quel campione della crudeltà assoluta, indistintamente riservata ad umani e non umani,  che è il dittatore nord coreano Kim Jong-un, il quale ha pensato bene di chiudere alcuni di loro anche nelle gabbie degli zoo, accanto ad altre specie: per altro per lui, che i suoi concittadini li relega in sciagurati campi di concentramento, l’etica  è un optional sconosciuto.


Non si può quindi  che relativizzare il discorso parlando di cani, e limitarlo (in questa sede) al mondo occidentale, dove sempre di più sono nostri compagni di vita, ma anche di lavoro, di impegno sociale e civile, come Amatrice, Accumoli, Pescara del Tronto  ci hanno ricordato: lì  una cinquantina di loro, intervenuti insieme al Corpo Forestale, alla Protezione Civile, alla Guardia di Finanza, hanno salvato almeno  60 persone e aiutato a ritrovarne in breve altre decine, purtroppo morte: ancora oggi, in un mondo tecnologicamente tanto avanzato, appaiono insostituibili grazie soprattutto al loro olfatto; un lungo  addestramento ed esercitazioni costanti li inducono a sopportare, oltre alla fatica, anche altri problemi quali per esempio quelli respiratori indotti dalle polveri sottili delle zone terremotate.  Viene in mente la cronaca di un analogo evento, che ha colpito l’Ecuador, nella zona di Pedernales, lo scorso 16 aprile, dove il labrador Dayko è morto di  stanchezza, sfiancato,  dopo avere lavorato senza sosta ed essere riuscito ad estrarre sette persone dalle macerie. A lui sono stati tributati funerali e celebrazioni da vero eroe.


Davanti a tutto questo, non possiamo non commuoverci (i media ne sono ben consapevoli!) non per scialbo romanticismo, e non solo perché è fin  troppo facile stimolare  corde della nostra emotività, sensibilizzata  sull’affetto, l’intelligenza, la dedizione del nostro cane, quello che amiamo e che ci ama. E’ che loro hanno forse qualcosa di più, una sorta di valoro aggiunto sugli umani che li affiancano e che pure si distinguono per altruismo ed estrema abnegazione: perché quello che per l’umano è un ideale, un lavoro, una missione, un dovere che può essere sostenuto da motivazioni a volte elevate e da una razionalizzazione che ammanta ogni sacrificio di un’aurea di significati, che lo nobilitano, per un cane è sempre, solo e soltanto adesione alle richieste del proprio compagno umano: quello che è il loro limite è la loro grandezza: solo per te. E a quel compagno umano guardano come a un dio in terra, per lui possono superare ogni paura e ogni barriera, in una ostinata e pervicace volontà di andare fino in fondo, qualunque sia il compito affidato.


E di compiti a loro ne affidiamo tanti, al nostro servizio: per cause dalla profonda valenza solidale, come l’accompagnamento dei non vedenti, per altre socialmente utili come il controllo, in veste di bagnini, di acque potenzialmente pericolose, per altre ancora di tipo terapeutico quale le svariate forme di pet-therapy, proseguendo con quelle ben più discutibili quali il traino delle slitte, magari per vacanze cosiddette alternative; siamo comunque ancora su  un piano pacifico. Le cose si complicano quando le attività contemplano l’uso delle armi e i cani diventano allora cani-poliziotto: certo, ancora attività socialmente accettate, ma decisamente più violente. Ricca la cronaca: Akil era un cucciolotto di un anno e mezzo, un cane lupo, che, nonostante la giovanissima età, era  in forza ai reparti speciali di polizia di Tunisi ed è morto nel conflitto a fuoco al museo del Bardo del 18 marzo 2015: la folla si è aperta ed ha applaudito al passaggio del suo corpo, mentre erano in tanti a non trattenere le lacrime.


 Diesel, pastore belga,  era più matura, aveva 7 anni  quando è morta, colpita dalle prime raffiche di mitra, mentre per prima entrava in un appartamento di Parigi, indicato come covo dei responsabili degli attentati del 13 novembre 2015. “E’ tornata indietro, colpita, per morire ai piedi del suo padrone, anzi del suo compagno” hanno raccontato i testimoni, commuovendo la Francia intera, e non solo.


Ad Ape, pastore tedesco di due anni in forza all’FBI, è stato inutilmente praticato un massaggio cardiaco dopo che è stato colpito da un uomo, ricercato per l’omicidio di quattro persone, rifugiatosi in uno scantinato dove non era possibile inviare il robot meccanico che si usa in questi casi e quindi era lui ad indossare la telecamera d’ordinanza.


Si va oltre, e si entra, con i cani, in zone di guerra, guerre lontane e guerre dichiarate o meno, molto vicine: Cairo, unico nome ricordato  il 6 maggio 2011 dal presidente Obama alla base militare di Fort Campbell  nel suo discorso di ringraziamento al commando degli 81 membri dell’unità segreta Seal Team Six, che uccise Osama Bin Laden, era il loro “cane da guerra”, un belga Malinois.

L’omaggio di Obama, come quello dei compagni poliziotti o degli agenti, ci parla di una realtà di amicizia e affetto tra uomini e cani, solidali nelle vita e nella morte, oggetto di un rispetto che esplode nel momento della drammatica separazione: riserviamo loro onori, ci mettiamo sull’attenti al loro passaggio, ci lasciamo sopraffare dalla commozione, quando li salutiamo, avvolti nelle loro pettorine che sanciscono l’appartenenza ad un gruppo.

Come per gli umani,  gran parte della realtà viene occultata dietro la retorica dell’ultimo saluto: poco si parla per esempio dei cani usati in guerra, usanza davvero non nuova dal momento che si hanno ricostruzioni storiche che datano a 18 secoli prima di cristo il loro uso in Mesopotamia. Ci riguarda molto più da vicino il loro regolare impiego nelle guerre e spedizioni del secolo scorso e di quello attuale: sappiamo per esempio che gli italiani, impegnati nella conquista della Libia del 1912, mandarono là cani,  soprattutto provenienti dalla Sardegna: per dovere di una cronaca  senza onore, a fine operazioni li abbandonarono sul suolo africano. Per la serie: la riconoscenza non è dote diffusa tra gli umani quanto lo è nel mondo dei cani, che, come tutti sanno, è il miglior amico dell’uomo:  nessuno, prudentemente, ha mai sostenuto che l’uomo fosse il migliore amico del cane.

Evento unico? No, purtroppo, dal momento che qualcosa di simile ebbe luogo nel corso della prima guerra mondiale: tante le foto che ritraggono i cani insieme ai soldati italiani in trincea; trainavano slitte in luoghi troppo impervi per i muli e servivano per il trasporto di viveri, acqua, munizioni. Anche a servizio dell’esercito tedesco erano stati arruolati 35.000 cani, dobermann e pastori tedeschi, impiegati come portaordini, per la ricerca dei feriti, per la bonifica dai ratti. Testimonianze e fotografie raccontano anche del  loro ruolo amicale tanto apprezzato dai soldati italiani in una situazione di estrema e totale drammaticità, in grado di sollecitare sentimenti di tenerezza e affetto, tanto preziosi in mezzo alle carneficine dove ogni briciolo di umanità sembrava perduto ed era l’animalità a rintracciarlo: insomma, presenze vitali anche in termini di aiuto e sostegno. Peccato che, al termine della guerra, secondo ricostruzioni giudicate attendibili,  furono abbandonati sull’Adamello, legati alla catena, nel momento del veloce abbandono della zona dei reparti in rapida avanzata.

La storia non si ferma, i conflitti si moltiplicano e si inaspriscono e anche nella seconda guerra mondiale i cani sono stati costretti a fare una parte, rimossa come tanto altro è stato rimosso, ma non per questo meno drammatica: furono migliaia quelli arruolati, a fianco di varie nazioni, con compiti disparati, tra i quali quello di  bombe viventi, con cariche di esplosivo legate addosso fatte deflagrare al momento opportuno: il pensiero, che vaga dissacrante di associazione in associazione,  va ai bambini e alle bambine a cui  oggi viene inflitta analoga sorte: Iran, Nigeria,  Irak, Afganistan: i cani venivano chiamati “suicidi”, attribuendo loro un’intenzione autodistruttivo funzionale all’assoluzione dei mandanti; quei  bambini e quelle bambine, con in mano le chiavi di un paradiso fallace,  sono chiamati “martiri”, quasi fossero portatori di una scelta consapevole di autoimmolazione anziché vittime del buio della ragione: le parole per commentare davvero mancano.

Della guerra del Vietnam basta ricordare che i 5000 cani, che aiutarono gli americani e salvarono persone, al rientro delle truppe in America furono, per ordine dei superiori, uccisi o abbandonati lì.

Non basta mai e ancora oggi vengono usati perché in grado di percepire gli IED (Improved Explosive Device), bombe artigiane usate per esempio nelle guerre cecene, ma anche come cavie per misurare il potere mortale di armi chimiche e batteriologiche. In altre situazioni sono costretti a buttarsi con il paracadute da altezze di 5000 metri, con buona pace delle loro caratteristiche etologiche.

Per altro il loro impiego in guerra ci ha invaso di acritica ammirazione, fin dai tempi in cui Rin Tin Tin a Fort Apache correva all’appello insieme al piccolo caporale RustY, inconsapevole antesignano dei bambini soldato, perché gli Indiani dovevano pure essere sterminati.

Insomma: cani da guerra, cani poliziotto, cani della protezione civile, arruolati in imprese di guerra e in imprese di pace, che loro non possono distinguere l’una dall’altra , ma sanno servire con dedizione assoluta, serietà e abnegazione.

La ridondante retorica, che ha commentato i loro comportamenti nei recenti tragici fatti nelle zone terremotate, pare francamente un po’ discutibile ed è forse necessario metterne in luce le componenti proiettive e antropocentriche: ci piace tanto attribuire ai cani la volontà estrema di salvare persone in pericolo, di arrivare in tempo e anteporre generosamente il salvataggio delle vittime alla propria incolumità. Non possiamo astenerci dall’attribuire loro pensieri e stati d’animo che sono nostri, perché  trasferire sull’altro ciò che ci appartiene è il mezzo che ci facilita nell’incontro, perché riconoscere elementi noti e condividerli crea un terreno comune su cui è agevole muoversi. In  realtà loro si stanno impegnando in un compito che hanno appreso e di cui non possono che ignorare il valore sociale e la cifra etica: non  perseguono il trionfo di una giustizia, di cui ignorano i parametri, e nemmeno  esprimono preferenze morali; ma non per questo si astengono dal  portarlo a termine  fino all’esaurimento delle forze, costi quel che costi, perché questo è quello che chiede il loro compagno umano, che sono pronti ad assecondare fino all’ultimo fiato. Lo fanno qualunque sia questo compito, come appunto dimostra il loro impiego bellico, in cui vengono trasformati in macchine da guerra, anziché di pace; ma il discorso va esteso ai cani utilizzati per la caccia, a quelli addestrati per le loro imprese da bande criminali, a quelli mandati al massacro nei combattimenti più o meno clandestini e a tutti gli altri. Ma sembra non riusciamo a farcene una ragione: e continuiamo ancora oggi a pensare ai pastori tedeschi che minacciavano e azzannavano prigionieri deboli e indifesi nel campi di concentramento nazisti come a mostri di aggressività, crudeli e  assetati di sangue; immagine purtroppo rinfrescata dalle cronache del carcere di Abu Ghraib, dove le vittime erano i prigionieri iracheni. Come pensiamo ad altri pastori tedeschi, ai labrador, ai malinois del terremoto come a campioni di generosità.

Un approccio più disincantato e realista dovrebbe riportare la questione nei suoi termini veritieri: riconoscere che ancora una volta siamo noi umani a fare scelte precise e a trasformare i cani in nostri collaboratori, nel bene e nel male, ci carica delle responsabilità che sono nostre; contestualmente, lungi dal togliere valore e significato agli sforzi estremi dei cani,  sono la testimonianza della loro intelligenza, ma anche della determinazione, della lucidità, della ostinazione che anima i loro comportamenti, la loro capacità di amare senza ambivalenze (capacità pressochè sconosciuta a noi umani, che, come afferma Freud, siamo inesperti di amore puro e dobbiamo sempre mescolarlo all’odio nelle nostre relazioni)  che è la cifra del loro attaccamento incondizionato a quell’umano che si sono trovati per compagno, da cui si aspettano come ricompensa  niente altro che una crocchetta, un biscotto, soprattutto l’abbraccio che li scompiglia.

Se potessero parlare forse ci spiegherebbero meglio: gli manca solo la parola, ma è davvero una fortuna perché  le cose che avrebbero da dire su di noi è forse meglio non saperle mai.







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