lunedì 9 marzo 2015

Dalla parte delle donne e degli altri animali





Che siano le donne molto più degli uomini a preoccuparsi delle sofferenze degli altri animali non è solo un luogo comune, perché vi sono  molte argomentazioni a supporto di questa asserzione. Si può cominciare dal fatto  che  il 70% dei vegetariani (i vegani sono conteggiati nel numero)  secondo stime generalmente accreditate per quanto inevitabilmente imprecise, sarebbero donne: bisogna considerare che si tratta di una scelta alimentare fatta sulla base di considerazioni di tipo etico,  volta ad astenersi da qualsivoglia violenza anche indiretta contro gli animali; chi infatti si muove sulla scorta di  motivazioni ecologiche o salutiste arriva al più  ad  una riduzione del consumo di carne, non alla sua abolizione, tanto meno all’eliminazione di tutti i prodotti di origine animale, che abbisogna di motivazioni ben più forti. Non è certo un caso che gli uomini giustifichino in genere la loro non adesione ad un’alimentazione vegetariana  proprio con l’argomentazione che i cibi vegetariani sarebbero “da donna”, vale a dire anemici,  non vigorosi, inadatti alla loro virilità. E così non solo non si impegnano a modificare uno stile di vita basato su un del tutto deresponsabilizzato piacere del palato, ma  nobilitano la loro pigra adesione allo status quo attraverso una autoassolutoria  svalutazione delle ben più consapevoli scelte femminili.

Da sottolineare  poi il fatto che  il 90 % delle segnalazioni di maltrattamenti di animali, che giungono ai centralini delle associazioni animaliste, provengono  da  donne; il chè significa che gli uomini applicano un filtro percettivo alla loro vista che permette loro di non dare accesso ad immagini o episodi di animali sottoposti a sofferenze, oppure che spettacoli di questo tipo non mobilitano in loro una conseguente reazione di indignata difesa del più debole, da cui evidentemente si ritengono esentati.

Degno di nota è anche il fatto che appartenenti al genere femminile sono tradizionalmente le gattare, vale a dire quelle persone che si occupano di gatti randagi, procurando loro cibo e acqua e cercando di metterli al sicuro dai frequenti maltrattamenti a cui sono esposti: lo fanno in genere a prezzo di un sacrificio personale tutt’altro che trascurabile, assicurando la propria opera che trasformano in dovere quotidiano, indifferenti alle  condizioni del tempo o al proprio stato di salute. Fondamentale la considerazione che  ciò avviene in assenza di aspettative di riconoscenza che non siano le fusa dei mici in questione e in assenza altresì di intenti appropriativi, attente come sono a rispettare e salvaguardare le abitudini e la libertà di questi animali: semplicemente raccolgono una richiesta di aiuto che proviene da esseri indifesi, eterni bambini in cerca di cibo. Come se ciò non bastasse, la loro figura non ha mai goduto neppure di quella considerazione sociale che potrebbe essere sufficiente ricompensa a tanto impegno; anzi: l’immagine della gattara è sempre stata fortemente stigmatizzata e svalutata da parte degli uomini, che ne hanno messo in risalto difetti e presunte manchevolezze, ne hanno ridicolizzato l’aspetto trasandato, spesso conseguenza stessa della abnegazione che mettono nella cura dei gatti. Bene afferma Adriano Sofri,in un suo articolo apparso su “Psicologia contemporanea”, che se Antigone rinascesse oggi sarebbe una gattara, riferendosi all’eroina della tragedia di Sofocle, che, avendo  disubbidito alla proibizione del  re Creonte di dare sepoltura al fratello Polinice, chiamata a darne conto, dichiara che la sua obbedienza è alle leggi sacre, quelle non scritte, quelle degli dei, che sono le leggi della pietà, che  inducono a compiere un dovere ben più alto di quello sancito dagli uomini.

Insomma, che siano le donne ad avere una maggiore sensibilità per i bisogni e per le sofferenze degli animali è un fatto incontestabile, espressione di atteggiamenti e comportamenti che tendono all’etica della cura, dell’anteporre ai propri bisogni quelli degli altri, che si tratti di bambini, vecchi, malati o appunto animali, con atteggiamenti che rovesciano  quelli basati sulla  violenza e l’aggressività, molto più diffuse nel genere maschile: sono gli uomini, infatti, i maggiori protagonisti delle cronache più violente, gli esecutori dei maggiori crimini, gli inquilini privilegiati delle carceri, sono loro i toreri, i cacciatori, i macellai, sono loro che si lasciano sedurre dal fascino oscuro delle guerre.

Di certo non si può a buon diritto sostenere che le donne siano esenti da tratti caratteriali che trovano nella violenza il loro modo di estrinsecazione; ma è utile riflettere sul fatto che esiste una  risorsa che più di ogni altra si oppone al fare del male: si tratta dell’empatia,  di quella capacità, cioè, che permette di mettersi dal punto di vista dell’altro, di calarsi nei suoi panni per capirlo non solo in base a delle valutazioni razionali, ma sperimentando su di sé le sue emozioni. L’empatia e quella sua estensione, riferita alla capacità di condividere la sofferenza degli altri, che è la compassione, sono declinate soprattutto al  femminile. Lo sostiene un luogo comune, che vuole le donne più facilmente coinvolte con la propria sensibilità nelle sofferenze altrui, e lo confermano test ed indagini specifiche:  per esempio l’osservazione di visi che manifestano emozioni, sia positive che negative, procura nelle donne molto più che negli uomini una risposta di  contrazione degli stessi muscoli del viso, che è il segnale fisiologico  del rispecchiamento psicologico della stessa emozione. In altri termini: le emozioni sperimentate dagli altri trovano risonanza in chi le osserva e le percepisce come se fossero proprie.

Forse curioso sottolineare che una malattia psichiatrica quale l’autismo, basata sulla totale mancanza di empatia, è diffusa in modo molto più marcato tra gli uomini che non tra le donne.

Insomma: che le donne siano più empatiche è facilmente dimostrabile; sul perché, molti sarebbero gli approfondimenti necessari, che partono dalla considerazione che  di sicuro l’empatia è fondamentale nel rapporto con i bambini, la cui cura nelle prime fasi della vita è affidata essenzialmente a donne; il chè può indurre a pensare ad una sorta di selezione naturale, perché i bambini di madri empatiche probabilmente nel corso dell’evoluzione hanno avuto maggiori probabilità di sopravvivere che non i figli di madri  incapaci di rispondere ai loro bisogni.

L’empatia è fondamentale nelle relazioni umane, ma è innegabile che, in dosi massicce,  sia fonte di stress perché “mangia le risorse”,  destinate ad una risposta basata sul  prendersi cura degli altri e distolta dall’affermazione di sé, affermazione invece perseguita con molto maggiore decisione dall’universo maschile, tanto amante di quel potere che per affermarsi necessita di aggressività e assertività.

E’ fondamentale sottolineare che la presenza dell’empatia, che spesso gli uomini tendono a svalutare come elemento di debolezza e fragilità, è al contrario fonte di un surplus di intelligenza, proprio perché questa ha bisogno di nutrirsi anche di emotività, essendo  le emozioni non un ostacolo ma un facilitatore delle  altre attività cognitive. Di fatto l’intelligenza femminile, non certo  inferiore, è  invece diversa da quella maschile: quanto quella maschile è analitica, logica, deduttiva, tanto quella femminile è sintetica, intuitiva, induttiva. Il pensiero maschile analizza progressivamente, quello femminile parte dalla contemplazione dell’insieme, assorbe l’oggetto della sua conoscenza.

Interessantissimo a questo proposito il fatto che le grandi studiose di primati  della seconda metà del 1900 furono tre donne, attive in periodi in cui il lavoro scientifico femminile era fortemente svantaggiato rispetto a quello maschile: si tratta di Diane Fossey, che si dedicò allo studio  dei gorilla nell’Africa centrale, di Jane Goodall, a quello degli scimpanzé, e di Birkute Galdikas a quello  degli oranghi  del Borneo: donne, quindi, scelte in quanto tali dall’archeologo e naturalista Louis Leakey. Diane Fossey, addirittura, non aveva nemmeno una preparazione specifica, ma, oltre alla passione, era dotata di una fortissima capacità di  empatizzare e di riuscire nella comunicazione dove gli altri non ne erano in grado, per esempio con  bambini disabili.

Prima di loro, lo studio di questi animali era stato condotto da uomini che li osservavano negli zoo e nei laboratori; quello che queste donne fecero, fu di trasformare completamente l’approccio: si trasferirono esse stesse nell’ambiente degli animali che volevano capire, fecero quanto possibile e anche un po’ di più, per entrare in sintonia con loro con una dedizione, che le portò ad una sorta di identificazione, a parlare il loro linguaggio dei gesti e soprattutto ad amare l’oggetto della loro conoscenza,  entrando in contatto con la sua totalità, lontanissime dal precedente modello maschile, uso ad appropriarsi degli animali che decideva di studiare e incapace persino di capire quanto quell’animale imprigionato e asservito ben poco conservasse di naturale. Solo in questo modo fu  possibile che a quelli che prima erano ritenuti solo scimmioni primitivi,  i mostri King Kong,  fosse poi riconosciuta l’essenza di  animali amabili, vegetariani, che vivono in piccoli gruppi coesi.

Per concludere il discorso, va ancora detto che l’empatia, così necessaria in tutte le relazioni che non si vogliano trasformare in predominio, se ha componenti innate ne ha anche altre che vengono apprese attraverso l’educazione e persino attraverso forme particolari di training che insegnano a “mettersi dal punto di vista” dell’altro nelle più disparate situazioni: come ti apparirebbe questa stanza se tu fossi alto come una giraffa? Come vedresti il tuo amico su tu fossi basso come un gatto? Provare per credere: è un esercizio che ha molto da insegnare ad ognuno di noi sulla strada di una reale identificazione nell’altro, tanto più difficile quanto più questi è diverso, non ci somiglia, come succede nel caso appunto degli altri animali.

E’ doveroso infine sottolineare che tutto quanto finora detto ha fatto riferimento a maggiori disposizioni, a dei “soprattutto”: sarebbe infatti fuorviante affermare che tutto il male sia maschile e tutto il bene femminile. Vi sono uomini il cui impegno è forte in favore di tutti i deboli e gli svantaggiati e vi sono, purtroppo , donne che pur senza esporsi in prima persona ad atti violenti, mantengono un ruolo non meno colpevole di sostenitrici o fiancheggiatrici di tante brutture.

E i cambiamenti in atto non sono rassicuranti perché vedono le donne a volte inseguire i non invidiabili primati dei loro compagni, affacciandosi con determinazione  nelle cronache come protagoniste  di omicidi o crudeli attacchi fisici contro persone deboli, le vedono sgomitare per svolgere il servizio militare, mentre qualcuna è già entrata nell’arena a massacrare con entusiasmo tori braccati e  indifesi. Se la lotta è per entrare a livelli di comando nella società così come è, anziché provare a trasformarla, il rischio è che la ricchezza del mondo femminile vada persa rendendosi prona a quella maschile o uniformandosi ad essa magari per compensare atavici sensi di inferiorità.

Per ora, in difesa degli animali, dalle donne sale spesso un grido gridato, laddove dagli uomini il silenzio è in genere rotto da argomentazioni logiche. C’è da augurarsi da una parte che la tutela dei diritti degli animali possa sempre di più divenire appannaggio anche degli uomini lungo un percorso che, nutrito inizialmente di razionalità, trovi il necessario punto di incontro con il sentimento; dall’altra che le donne riescano a dare voce fino in fondo alla loro capacità di vedere, capire, sentire il dolore degli animali, acquisendo la consapevolezza che la cura dei più deboli contiene in sé profondi valori filosofici e ragioni esistenziali. “Tutto è legato a una questione di postura – per concludere con la poesia di Franco Marcoaldi – l’unica chance offerta all’uomo eretto è di sdraiarsi a terra: osservando le stelle insieme agli animali, magari, scorderà di essere macchina di sopraffazione e di guerra”. Sempre che riesca ad alzare lo sguardo verso le stelle senza pensare a come conquistarle. 
(Su Veganzetta, 8 marzo 2015)