domenica 30 giugno 2013

IL TOPO FABRIZIO







Vuoi attaccare l’altro? Paragonalo agli animali 
                                                                

Siccome non c'è niente  di nuovo sotto il sole, ma corsi e ricorsi storici, dejavu  stancamente si ripetono, la recente polemica del richiamo dell'onorevole Calderoli all'orango, alla vista del ministro Kienge, richiama alla mente pari pari la campagna (2010) della Confederazione  Elvetica contro gli stranieri che rubano il posto di lavoro a chi è nato sul suolo patrio:  si intitolava  BALAIRATT, ballano i topi, e l'immagine di tre topastri veniva usata per  incarnare lo sporco spregevole che sempre viene da fuori, dalle altrui fogne: la soluzione? Ovvio: derattizzare.
Di tutto si può accusare questa campagna tranne che di originalità: l’altro, il diverso, lo straniero, e poi piano piano a seguire il nemico, quello da cui guardarsi e quello da eliminare, ha le fattezze di un animale. Il meccanismo è funzionale ad accentuare le differenze: tanto maggiori queste sono, tanto più forte è l’identificazione con il  proprio gruppo di appartenenza, che spesso non ha altri elementi di coesione se non la distanza da altri.
Tali metafore divampano soprattutto nel corso delle guerre, quando i freni inibitori di qualsiasi tipo collassano, e la necessità di sollecitare aggressività e violenza diventa fondamentale, ma non sempre facile, dal momento che il nemico è identificato come tale dalla classe al potere, ma non da chi deve andare a ucciderlo.

SBATTI LA CARNE IN PRIMA PAGINA



Se uno dei quotidiani più diffusi mette sulla copertina del suo inserto l’immagine di tre grossi pezzi di carne rossa con striature di grasso sotto il titolo "Carne al TOP", la tipologia stessa dell’immagine, più adatta alla vetrina di una macelleria che ad un settimanale, qualche riflessione la impone.
Il piatto è ghiotto, per restare in tema, ed è bene individuare gli ingredienti. Che i media, con il loro potere culturale, sociale, politico ed economico, non mostrino aperture alla difesa del mondo animale è cosa nota e spiegabile: lo sfruttamento animale nelle sue variegate forme dà lavoro e/o arricchisce un infinito numero di persone, allevatori, aziende, commercianti, ricercatori, case farmaceutiche. Ce ne è quanto basta per uno schieramento senza se e senza ma dalla parte "giusta", quella che nega, rimuove, svilisce la sofferenza degli animali. Ma loro sono ubiquitari nelle nostre vite, necessari, irrinunciabili. I media, che non lo
ignorano, si occupano solo di alcuni e solo in determinati contesti: non vi è giornale che non dedichi spazi inteneriti a vicende di cani in attesa del proprio padrone scomparso o alla vecchia signora che spende la pensione per nutrire i gatti; il veterinario dice la sua su come evitasre la carie al coniglietto e tutti sanno quanto funziona la pet-therapy.
Contestualmente un pietosissimo velo di silenzio è steso sul non politicamente corretto, cioè sui tragici costi pagati dagli animali all’alimentazione "normale", basata sul consumo di carne: la pubblicità è pervasiva, ma attenta a scindere nelle parole e nelle immagini il prodotto finito dalla sua origine: troppo sensibile ormai gran parte dei consumatori che mangiano di gusto, ma si ribellano al ricordare l’origine di tante prelibatezze. Decantare il tonno in scatola non è rischioso, perché, poveretto, pressato com’è nella scatoletta, non reca traccia della sua morte cruenta e crudelissima. Così noi, anime belle del mondocivilizzato, ad eccezione di un po’ di machi che come sport praticano la caccia, di tanti vivisettori che si esercitano in quella che autorevoli riviste scientifiche hanno definito "cattiva scienza", di tanti operatori che fanno in prima persona il lavoro sporco e, con le parole di Coetzee, hanno avvolto la loro anima nel carapece, pur sostenendo con il nostro stile alimentare il massacro degli animali, abbiamo eliminato dal nostro repertorio mentale i riferimenti al loro olocausto: davvero una nuova sensibilità si è andata instaurando, grazie ad una progressiva eliminazione di spettacoli di violenza, crudeltà, accanimento brutale, alla cui esposizione si deve un processo di spegnimento della pietà.

PERCHE' MANGIAMO CARNE

L'analisi psicologica di ANNAMARIA MANZONI nell'intervista di Elena Bernabè, www.eticamente.net



 All'interno del suo libro, "Noi abbiamo un sogno",  vi è un'analisi psicologica illuminante riguardo le motivazioni che spingono le persone a mangiare carne: ce le può riassumere brevemente?

Il discorso è articolato e complesso e poco adatto ad una sintesi che inevitabilmente  trascura elementi importanti. In ogni caso,focalizzando  il problema della violenza sugli animali non umani sul “mangiar carne”, si va diritti al cuore della questione perché grandissima parte di tale violenza non è agita da persone sadiche e  malvagie, ma è consentita e supportata da quelle “normali”, per bene, che con il proprio stile di vita, la propria alimentazione , il proprio modo di vestire sono la causa del martirio quotidiano di uno sconfinato numero di loro.
Se fare fronte e contrastare l’aggressività può essere compito complesso, ma per il quale nel corso del tempo sono stati approntati strumenti, frutto di molti approfondimenti sulla sua eziologia,  più complicato è occuparsi di  quella banalità del male, di cui il mangiar carne è chiaro esempio,  che proprio in quanto banale viene accettata nella sua pretesa normalità, senza nemmeno essere riconosciuta come male.
Da sottolineare quanto  la  psicologia sia ancora oggi omissiva al riguardo: le ragioni vanno ricercate, io credo,  nel fatto che coloro che dovrebbero essere gli studiosi di questo fenomeno sono in genere essi stessi  oggetto dello studio che dovrebbero condurre. In altri termini: gli psicologi, meglio: noi psicologi  siamo parte del problema esattamente come lo sono tutte le altre persone, quando non riconosciamo come prodotto di prepotenza e predominio il mangiare  gli animali, nonostante  il corollario di schiavizzazione e uccisione che ciò comporta,   non mettiamo   a fuoco  la situazione , non ci  rendiamo conto della tragedia quotidiana in atto, rispetto alla quale dovremmo sentirci chiamati a intervenire per cercare di decodificarla, dal momento che, per  formazione e professione,  possediamo , o dovremmo possedere, gli strumenti per farlo. Per altro tutte le forme di violenza legittima intraspecifica, vale a dire all’interno della specie umana, (si pensi alla pena di morte, alle punizioni fisiche sui bambini…) sono davvero poco studiate, in se stesse e nelle loro conseguenze, se non in modo indiretto, come per esempio con l’interpretazione degli studi di Milgram sulla obbedienza distruttiva; esattamente  come succede per quanto riguarda la violenza legittima interspecifica, quella contro gli altri animali.
Di fatto sono molti i  meccanismi che consentono il perpetuarsi dell’attuale stato di cose, permettendo di non riconoscere il male, per legalizzato  che sia, insito nel nostro rapporto con gli altri animali: si tratta di meccanismi  inconsci, definiti di difesa proprio in quanto assolvono il compito di proteggerci  dall’angoscia che potrebbe esplodere se la realtà in atto venisse riconosciuta. In primo luogo non si può prescindere dal nostro essere totalmente immersi in una  cultura antropocentrica, per cui il concetto stesso di animale è svilito e identificato non con quello di  essere vivente, sofferente e senziente, ma con quello di entità che è di fatto reificata, ridotta allo stato di cosa. Solo questa rappresentazione dell’animale permette per esempio che la gente possa tranquillamente accordarsi per “andare a mangiare il pesce”, oppure organizzi gioiose grigliate o celebri con soddisfazione piatti stagionali come lenticchie con zampone o polenta con  capriolo. I termini sono scollegati dall’animale che sono,  le vittime indifese non sono neppure pensate, non vivono nemmeno nell’immaginario, non possiedono esistenza propria. Si pensi a quell’immagine tanto spesso pubblicizzata, in cui la sagoma di una mucca è divisa in parti corrispondenti ad altrettanti “pezzi” destinati a variegati  trattamenti culinari: l’essenza stessa dell’animale è negata in favore della sua riduzione a cibo. Tradizioni filosofiche e  convincimenti religiosi teorizzano la liceità di tutto ciò: agli animali  non umani ancora oggi non è stata attribuito il possesso dell’anima, e questo basta alla scellerata giustificazione di ogni male contro di loro: per attribuirla alle donne sono state necessarie lunghissime riflessioni (da parte degli uomini), per gli schiavi è stato più complicato ancora. La cinica osservazione che tenere categorie di esseri viventi in condizioni di inferiorità procura enormi vantaggi a chi detiene il potere non rende ottimisti sul tempo necessario a che una salutare rivisitazione del nostro rapporto con gli animali dia  loro la dignità che loro neghiamo, siano o meno contenitori di quell’anima che pare essere il salvacondotto per ogni attribuzione di dignità.
A questa imprescindibile cornice cognitiva, entro la quale ci poniamo come  razza padrona di altre specie, si affiancano molte altre dinamiche. Un forte ruolo lo giocano  la dittatura della consuetudine,    la pervasività stessa del fenomeno che induce a delle non scelte: l’abitudine si riproduce e si propaga nelle nostre vite inducendoci a reiterare gesti e comportamenti senza che emerga il bisogno di interrogarci al proposito. E così  si continua a  mangiare ciò che si è sempre mangiato. E’ tra l’altro provato che, non solo dal punto di vista psicologico ma anche da quello fisiologico, esiste un adattamento positivo ai gusti e ai sapori  a cui da sempre siamo assuefatti: per rendersene conto, basta il confronto quotidiano con tanta variegata  immigrazione, che ci mostra come  le persone portino con sè dai loro paesi d’origine consuetudini alimentari,  da cui tendono a non staccarsi, non solo per proteggere un filo di continuità con un passato e un luogo pregno di affetti, ma perché i loro stessi sensi, il gusto, l’olfatto si sono programmati ad  apprezzarli. Allo stesso modo  staccarsi da una pratica alimentare in cui i prodotti di origine animale sono potentemente  presenti (e questa, nel mondo occidentale,  è la norma nell’educazione dei bambini) richiede una scelta a fronte della sua perpetuazione che procede “in automatico”, tanto più semplice perchè frutto di  inerzia. Quando nuove consapevolezze, a cui è davvero impossibile sottrarsi,  inducono a prendere atto della realtà di indicibile dolore che questo comporta, altri meccanismi arrivano in salvataggio dal rischio di sperimentare intollerabili sensi di colpa: il fatto che si tratti di un’abitudine del tutto condivisa, ubiquitaria, “normale” induce a non assumere il senso della propria  responsabilità, talmente  parcellizzata da risultare incorporea. Per altro il percorso che porta la carne in tavola è facile da ignorare: non conservando  traccia visibile e percepibile dell’animale da cui proviene,  la gran parte dei cibi cucinati facilita marcatamente i meccanismi  salvifici di rimozione e di negazione:  il salame si è materializzato lì sul  bancone del supermercato, il tonno è sempre stato nella scatoletta  e se un passato è riconosciuto al  pollo è al massimo quello del tempo trascorso  nel forno. E così possono essere i bambini stessi, nel mondo pubblicitario, gli  sponsor di questi “prodotti”, bambini che con tanta facilità sono indotti ad ignorare il dietro le quinte di tutto ciò, bambini rispetto ai quali gli adulti compiono dei veri disastri nel trasformare quella che è la loro naturale attrazione affettiva verso gli animali in quell’appiattimento sullo status quo, che passa dalla negazione del problema alla sua progressiva accettazione attraverso un processo di desensibilizzazione.
Non si può dimenticare come le società, le culture si preoccupino delle propria sopravvivenza  riproponendo valori sempre uguali a se stessi: l’educazione, la scuola trasmettono riferimenti  che perpetuano l’esistente e   sostengono come valore quello dell’obbedienza, dell’adattamento alle norme. Disobbedire, cambiare lo stato delle cose, ribaltare le abitudini, sconvolgere le convinzioni richiede invece la capacità di dare corso al proprio sentire anche quando questo segue direzione contraria al sentire dei più, richiede fiducia in sé stessi e nei propri pensieri, richiede il coraggio dell’essere contro.
Il pensiero divergente deve sempre difendersi dagli attacchi del conformismo, che si serve di innumerevoli strumenti per affermare se stesso: chiunque si occupi di difesa attiva degli altri animali , per esempio, ha inevitabilmente dovuto fare i conti con il  “confronto vantaggioso”, si è in altri termini sentito obbligato a  giustificarsi davanti all’accusa che ben altri sono i problemi del mondo che meritano dispiegamento di energie, le guerre e la fame, le donne violentate e i bambini sfruttati: ma l’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia per l’ingiustizia in qualunque altro luogo, diceva Martin Luther King in tempi in cui l’utopia sembrava essere ad un passo dalla realtà. E Che Guevara esortava ad essere sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia contro chiunque, in qualunque parte del mondo. Quei chiunque sono sempre e dovunque anche e soprattutto gli animali non umani, tanto disconosciuti come vittime; purtroppo, ed è amarissima considerazione , anche  chi della difesa dei deboli sembra fare ragione di vita oggi sembra ignorarlo.
Non va dimenticata poi la mistificazione della realtà, quella sorta di etichettamento eufemistico che ci parla di mucche felici (di vedersi sottratto il vitellino appena nato, che viene allontanato urlante e disperato), che ci mostra maialini danzanti ( per essere stati evirati,amputati appena nati di denti e coda), che definisce la caccia “buona” (perché stermina a pallettoni animali in sovrappiù per il gioioso piacere di uomini – e donne!- in assetto di guerra), di macellazione umanitaria (ma gli ossimori sono per definizione termini incompatibili tra di loro):il mondo non sarebbe quel disastro che è se venissero usati termini corretti per descrivere la realtà, dice Tom Regan in “Gabbie vuote”. Purtroppo non chiediamo di meglio che sentirci rassicurati: così accettiamo con sollievo la mistificazione della realtà, la negazione di ciò che risulta insopportabile: bisognerebbe invece ricordare che , come dice il filosofo Galimberti, la negazione è la prima radice, la più profonda dell’immoralità collettiva: perché il rifiuto a riconoscere le grandi ingiustizie evita la reazione che potrebbe avere luogo se venissero riconosciute. Molti dei grandi massacri della storia non avrebbero forse potuto essere portati a termine se non fossero rimasti inerti coloro che avrebbero potuto intervenire.
Il  discorso  si complica con tante altre considerazioni che vanno a includere il tema della violenza che non può essere distinta a seconda di chi ne è l’oggetto: perché un link indissolubile, a livello sia di responsabilità che  di conseguente sofferenza,  lega quella esercitata contro chiunque: uomini, donne, bambini, animali. Invece ci nutriamo di  affermazioni generali (“la  violenza è da rifiutare”) , i comandamenti sono assoluti (“non uccidere” ), ma poi è insito nelle convinzioni che gigantesche eccezioni possono serenamente essere elevate al rango di  norma: sui bambini la violenza, che è il vero nome delle punizioni fisiche,  è considerata ancora oggi  educativa anche in alcuni paesi del mondo occidentale, come se i bambini non fossero persone, i più deboli tra le persone; e uccidere gli animali non umani non è peccato.

2- Secondo lei è possibile cambiare questa mentalità "carnivora"? se si in che modo?
A questa domanda credo si possa rispondere solo richiamando il  pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo del cuore: la realtà è devastante e il compito di cambiarla ciclopico, perché,  diceva Saramago, premio Nobel per la letteratura, questo mondo è sbagliato, non imperfetto: sbagliato.
Quali siano i modi più utili per fare la propria parte nell’incidere sull’esistente è difficile stabilirlo; sono comunque tanti e ognuno di essi contiene la  possibilità di modificare lo stato di cose. E’ in circolazione in rete un filmato spagnolo, che mostra l’ operatore di un reparto macelleria  che, dopo avere offerto  ai clienti assaggi di pasticci di carne, molto apprezzati, chiede loro se vogliano  la salsiccia fresca da cucinare e, al loro assenso,  si china a raccogliere da un cesta un maialino vivo, lì insieme ai suoi fratellini, che lui  infila in  una macchina tritacarne da cui escono salsicce già belle pronte. Si tratta, inutile dirlo, di finzione perché il maialino viene in realtà messo in salvo tra le braccia di una ragazza, ma ciò che vedono i  clienti non lo lascia supporre: interessante la reazione dei clienti, che   guardano quello che il macellaio va facendo dapprima stupiti poi costernati: cercano di fermarlo, lo  coprono di insulti :nessuno accetta più di acquistare quello che prima era parso un prodotto prelibato. Il filmato rende evidente l’ ignoranza e la disinformazione che avvolgono  il mondo dello sfruttamento animale, inverosimile  in epoca di internet,  ma reale: persino persone di ottima cultura, di  certo non escluse dall’accesso all’informazione, spesso si meravigliano  per esempio di venire a sapere  che il latte che bevono è quello  sottratto al vitello, quasi le mucche lo producessero in automatico, essendo “animali da latte”. Dato lo stato delle cose, sollevare il velo sulle nefandezze è necessario, come lo è una corretta controinformazione sulla percorribilità del veganesimo senza rischi per la salute.
Ma, al di là delle singole strategie,  il discorso vero  è quello della necessità di un rivolgimento esistenziale, filosofico, di pensiero che rimetta in gioco dalle fondamenta il nostro modo di essere: la  cultura che può opporsi all’attuale stato di cose è la  cultura della solidarietà, dell’ empatia, della comprensione dell’altro, tutti valori che non possono fermarsi sul confine di specie, che è un confine fittizio, ma devono inglobare nel proprio orizzonte etico tutti gli esseri viventi. Una cultura consapevole  che le relazioni devono essere  costruite  sulla collaborazione e non sull’antagonismo, sulla cooperazione e non sulla prevaricazione. Una cultura che riesca a vedere gli animali non umani come, con le parole di Henry Beston  “altri universi captati insieme a noi, nella rete della vita e del tempo; nostri compagni di prigionia nello splendore e nel travaglio di questa terra”.  E che si giochi sulla grande partita che ha inizio dall’educazione dei bambini, che deve essere prima di tutto educazione alla non violenza e  al rispetto, e si propaghi  poi in ogni piega  della società in cui  amplissimi mezzi per ingenerare il cambiamento di certo sono  appannaggio di chi detiene il potere:  ma non potendo avere soverchie illusioni al proposito, dal momento che  tanto spesso il medico è esso stesso parte della malattia, è necessario recuperare la consapevolezza della possibilità di ognuno di poter incidere in modo impensato sulla realtà. Non bisogna dimenticare che “l’ingiustizia è negligenza individuale”, che sulla scena del crimine, oltre a  carnefice e vittima , c’è un terzo personaggio che è lo spettatore, da cui tanta parte del finale dipende. Allora è fondamentale, se spettatori siamo, non essere silenziosi, diventare noi il cambiamento, agire contro ogni infamia, recuperando il senso di vicinanza con tutte le forme di vita, anche attraverso la disubbidienza alle leggi degli uomini, nel rispetto di un’etica che arriva in luoghi pacificati, che tali leggi, oggi, non sanno nemmeno immaginare.

3- Psicologia e vegetarismo: quale delle due ha dato inizio al suo libro?
 E’ stata la convinzione che gli altri animali, quelli non umani, non sono esclusi dall’interesse psicologico:  vivono in numero enorme all’interno delle relazioni con la loro presenza, anche quando non riconosciuti perché ridotti a cibo: è inaccettabile relegarli, come facciamo con l’eccezione dei cosiddetti animali da compagnia,  allo stato di silenzio e di invisibilità. Se è vero che ogni esperienza incide su di noi, sul nostro modo di essere, modificando persino la nostra realtà cerebrale, è fondamentale prendere atto del ruolo degli altri animali nelle nostre vite, prendere atto di loro anche come  oggetti di studio, oltre che, e questo viene al primo posto, di stupita fascinazione, se solo si ha voglia  di guardarli nell’incredibile ricchezza delle loro vite
 Per quanto mi riguarda, posso solo dire che da sempre conosco i nomi di Firpo, Ras, Laika, cani vissuti molto prima che io nascessi e che la memoria di mio padre mi ha consegnato con tanta dolcezza, negli aneddoti della sua infanzia molte  volte ripetuti,  da farli entrare nel mio mondo psichico : che di persone e di animali è popolato .

venerdì 21 giugno 2013

ZOOSAFARI




Di certo uno zoosafari non è uno zoo: non ci son gabbie, gli animali non vanno avanti e indietro con movimenti stereotipati che manifestino la loro sofferenza; non si incrociano gli sguardi immobili di quelli che sembrano avere abdicato persino ai desideri ed hanno smesso di lottare per una irraggiungibile libertà.
Eppure, anche se quelli che vi sono portati a vivere non sono assoggettati alle peggiori limitazioni, tante cose  non appaiono condivisibili in questi luoghi, in cui di naturale non si trova nulla. Il fatto è che qui la loro presenza è finalizzata a fungere da merce, da attrazione per futuri potenziali visitatori, grandi e soprattutto piccoli;  in uno spazio delimitato vengono immessi animali di specie  diversificate, i più svariati, a seconda delle decisioni e delle convenienze del proprietario, che li fa nascere a questo preciso scopo e abitare  luoghi che sono lontanissimi e diversi da quelli d’origine; qui devono restare in una sorta di arca di Noè allargata in cui molte sono le specie che devono essere rappresentate e possibilmente tenute in condizioni che ne favoriscano la riproduzione, ma senza esagerare.
 La  grande maggioranza degli animali che popolano gli zoosafari, quando si trovano nei luoghi dove sarebbero deputati a vivere se lasciati in santa pace, conducono un’esistenza sociale complessa, in gruppi speciespecificamente organizzati in cui esistono relazioni parentali, di coppia, amicali; in cui gli anziani svolgono un ruolo importante per i più giovani; in cui i piccoli crescono con l’apporto di tanti diversi adulti in ruoli differenti. La vita e la morte lì seguono altri ritmi, sono  estremamente composite, affascinanti e tragiche al tempo stesso, perché passano attraverso la lotta per la sopravvivenza, la difficoltà delle condizioni naturali, le differenze marcate dalla propria forza o dalla propria debolezza. Di tutto ciò uno zoosafari non può certo dare conto, imbrigliate come sono le esistenze degli animali lì trattenuti; è scontato che le condizioni originarie non possono essere fittiziamente riprodotte, e di conseguenza ogni intento conoscitivo è destinato ad abortire sul nascere; meglio ancora: non è neppure perseguito, perchè l’unico vero scopo  è miniaturizzare contesti di vita ben lontani dall’originale, secondo le leggi di un  mercato teso a fornire non conoscenza, ma superficiale divertimento.  Non è edificante lo spettacolo di macchine e pullman che attraversano questi spazi sputacchiando i loro gas di scarico; lo è ancor meno quello di vocianti ragazzini che, tra un panino e l’altro, allungano ogni tipo di junk food a quelli tra gli animali che, proprio  come loro, dovrebbero invece poter contare su scelte alimentari sensate.

giovedì 20 giugno 2013

SAGRA "DEI OSEI"



SPETTACOLO VIETATO AI MINORI   

L’empatia è la capacità di mettersi nei panni degli altri, di sentire in una sorta di risonanza interna quello che l’altro sente: è facoltà formidabile perché dà la possibilità di prendere atto di qualche cosa che sta succedendo ad un altro, indipendentemente da un’analisi critica e razionale, per la quale si possono non avere adeguate competenze, e di fornire un tipo di conoscenza completa, perché immette nel mondo delle emozioni e dei sentimenti, che sono parte imprescindibile della possibilità di capire.
Gli studi al proposito, proprio in virtù dell’enorme importanza che essa riveste a livello personale e relazionale, procedono incessantemente: la più recente scoperta a cui hanno condotto, in Giappone,  è che  bimbi di 10 mesi (esatto: di dieci mesi!)  sono in grado non solo di cogliere nessi di causalità tra diverse azioni, ma addirittura, in situazioni adeguatamente strutturate, di esprimere preferenza e tifo per chi rappresenta la vittima rispetto a chi  è tormentatore: in altri termini le radici primigenie dell’empatia e del senso di giustizia sarebbero precocissime, inscritte nella nostra natura biologica.
L’informazione è tale da modificare in senso vagamente ottimistico l’idea svilita e mortificata di noi stessi e dell’umanità in generale di fronte al disastro ben visibile intorno a noi e a noi del tutto imputabile. Accanto alle ottime considerazioni che ci consentono di pensare ( illuderci?) che, stando così le cose, forse non tutto è perduto, che c’è ancora spazio per tentare un riscatto dal male profondo che popola questo nostro mondo, l’informazione comporta anche una doverosa presa d’atto della responsabilità che abbiamo verso le nuove generazioni che, biologicamente in grado di rendere il mondo un posto migliore di quello che è, possono d’altro canto a causa nostra divenire bersagli di  input tali da invertire malauguratamente la  rotta.
Anche la sagra dei osei in questa dinamica fa la sua parte, parte che sarebbe ingiusto sottovalutare. Questa, come tutte le sagre, è anche luogo di ritrovo e di festa dove portare i bambini, che ne costituiscono di conseguenza pubblico privilegiato. Mettiamoci allora per un po’ dal loro punto di vista, usando quell’empatia di cui anche noi adulti, per quanto deteriorati possiamo essere, non possiamo non  conservare traccia: cosa vedono i loro occhi? Vedono “osei”, alias uccelli, uccellini, volatili di ogni specie, grandezza e tipo chiusi dentro gabbie; gabbie numerose, l’una sopra all’altra e l’una di fianco all’altra, a formare un enorme reticolato che separa la vita articolata e ricca del di fuori dalla coercizione e dai limiti del di dentro. Vedono animali  variamente stipati, a volte immobili, a volte soggetti  a stereotipati nervosi movimenti del capino; vedono bestioline ferite  e lasciate lì; altre che si indovinano collassate dal caldo; altre ancora che sbattono infinite volte contro il metallo delle gabbie.  Vedono una realtà fatta di  reclusione, imprigionamento, isolamento dal contesto naturale; di impossibilità a fare quello che gli uccelli per definizione fanno: volare,  che è di certo cosa buona e bella, tanto che  noi umani gliela  invidiamo e  in mille modi cerchiamo artificiosamente di riproporla, pur non essendo certo stati attrezzati dalla natura a farlo. E invece no, a loro non glielo facciamo fare: sole, luce, rami da raggiungere, giochi a rincorrersi, amoreggiare e litigare nell’aria, tutto rigorosamente vietato a tutto vantaggio di una stolida carcerazione di loro che sono detenuti senza colpa. Magari vedono, i bambini,  anche un prezzo esposto sulla gabbia, tanto per fugare ogni dubbio: noi gli uccelli li vendiamo e li comperiamo, li rinchiudiamo e li spostiamo dove vogliamo.

SAGRA DI SACILE



TRADIZIONI SENZA VALORE

“..Nella caccia non vedo che un atto inumano e sanguinario, degno di uomini che conducono una vita senza coscienza, che non si armonizza con la civiltà e col grado di sviluppo , a cui noi ci crediamo arrivati. Basta immaginare la condotta dell’uomo durante la caccia per convincersi che, lasciando libero il passo ai suoi peggiori istinti, egli compie atti che, al solo pensarvi lo farebbero arrossire in altre situazioni. La sopraffazione, la perfidia,le trappole, l’imboscata, l’assalto di molti a uno solo, del forte contro il debole, il ratto dei piccini ai genitori e viceversa, sono altrettanti atti vili per se stessi…. compiuti apertamente durante la caccia”:  si può proseguire parlando di costante suicidio morale perseguito dai cacciatori, dell’assenza di pietà, della gioia crudele di provocare dolore. Sono solo alcune delle espressioni usate nel 1891 da Leone Tolstoj , che la caccia ben la conosceva per averla praticata prima che una salutare riflessione lo inducesse ad allontanarsene per sempre con il rimorso per quello che non aveva capito prima. La connotazione della caccia come attività crudele e incivile  è oggi nel nostro paese estremamente diffusa, tanto che  i cacciatori sono oggi una minoranza del tutto esigua, non più di 7/800 mila:  una progressiva consapevolezza ha indotto un numero sempre crescente di persone non solo a non praticarla in prima persona, ma ad esprimerne una secca  e definitiva condanna. Incredibilmente una classe politica sorda alle istanze dei cittadini di cui dovrebbe essere l’espressione e intrepretare la volontà è succube e prona di una minoranza aggressiva e astorica. Di conseguenza è necessario ancora mobilitarsi  per far valere i propri diritti di cittadini, ma ancora di più di tutti quegli animali, senza diritti e senza voce,  che ne sono le vittime incolpevoli.
Su questa scia si situa la sagra degli osei, celebrata con orgoglio a Sacile, provincia di Pordenone, che mette in mostra ogni 2 di agosto migliaia di “uccelli da richiamo”: espressione già di per sé latrice di una realtà di sopraffazione e inganno: già perché questi uccelli , privati della libertà, rinchiusi in gabbie anguste, obbligati a spezzare il proprio volo contro le sbarre che incontrano cercando un sud, che è iscritto nei loro geni,  nei periodi di migrazione, devono servire a loro insaputa e loro malgrado a richiamare con un canto, che è  di desiderio,  altri uccelli, e  così  portarli giusto giusto sulla traiettoria dei pallettoni dei cacciatori, di quelle persone, cioè, bardate come per la guerra, armate fino ai denti, pronte ad atterrare con immane prova di coraggio esseri di pochi grammi, incantati nel loro volo dalle lusinghe inconsapevoli di altre vittime.
Non credo occorrano commenti: la realtà di prepotenza, sopraffazione, crudeltà e cinismo è talmente evidente che ogni parola suonerebbe superflua. Vale allora solo la pena di fare poche riflessioni sull’orgoglio esibito dai cittadini di Sacile, che celebrano con soddisfazione quella chiamano  festa della natura con  migliaia di uccelli rinchiusi in gabbie piccole e sovraffollate: il tutto per , vantare la  tradizione, che 738 anni di storia non hanno scalfitto.

VUOI ATTACCARE L'ALTRO? PARAGONALO AGLI ALTRI ANIMALI



     

Ci risiamo, niente di nuovo sotto il sole, corsi e ricorsi storici, dejavu che stancamente si ripetono.
La nuova campagna della Confederazione  Elvetica contro gli stranieri che rubano il posto di lavoro a chi è nato sul suolo patrio (no! Non stiamo parlando dell’Italia: potrebbe sembrare, ma non è così) si intitola BALAIRATT, ballano i topi: e tre topastri incarnano lo sporco spregevole che viene da fuori, dalle altrui fogne: la soluzione? Ovvio: derattizzare.
Di tutto si può accusare questa campagna tranne che di originalità: l’altro, il diverso, lo straniero, e poi piano piano a seguire il nemico, quello da cui guardarsi e quello da eliminare, ha le fattezze di un animale. Il meccanismo è funzionale ad accentuare le differenze: tanto maggiori queste sono, tanto più forte è l’identificazione con il  proprio gruppo di appartenenza, che spesso non ha altri elementi di coesione se non la distanza da altri.
Tali metafore divampano soprattutto nel corso delle guerre, quando i freni inibitori di qualsiasi tipo collassano, e la necessità di sollecitare aggressività e violenza diventa fondamentale, ma non sempre facile, dal momento che il nemico è identificato come tale dalla classe al potere, ma non da chi deve andare a ucciderlo.
La costruzione del nemico può ricorrere ad  immagini che solleticano azioni e reazioni violente;  ecco allora le metafore animali servire allo scopo: gli animali più gettonati sono i maiali, i cani che devono essere rabbiosi o rognosi, i topi, gli scarafaggi, le formiche. Per limitarci alla storia moderna, Martin Lutero chiamava maiali gli ebrei;  gli indiani del nord America venivano definiti lupi, serpenti e babbuini;  la propaganda nazista equiparava gli ebrei a topi da stanare;  Mussolini preferiva le cimici slave; i giapponesi si riferivano ai cinesi come a maiali; tacchini vennero chiamati gli irakeni nella guerra del Golfo e scarafaggi i Tutsi ad opera degli Hutu.

giovedì 13 giugno 2013

CRUSH FETISH



 Sono molti i  giornali dello scorso  20 aprile che hanno riportato con evidenza e a titoli pressochè unificati, la  condanna  a 4 mesi di una gentile signora, 40 anni e tre figli, che, nuda e in tacchi a spillo, uccideva pulcini, conigli e altri piccoli animali. E poi metteva il tutto in rete. E così il caleidoscopio della smisurata varietà di situazioni ideate dalla mente umana è a disposizione di chiunque ne condivida il piacere perverso e  di chi, bypassando la ripugnanza istintiva, prova nonostante tutto a cercare il bandolo della matassa.  Se ci si inoltra nei meandri dei contesti in cui tutto ha luogo, risulta ahimè chiaro non trattarsi di un comportamento eccezionale come si vorrebbe, ma collegato a  situazioni che gravitano intorno ad una forma tanto particolare di piacere sessuale da avere bisogno della  tortura e uccisione di animali, così  diffuso da poter contare su  un’espressione che lo designa,  crush fetish o, se si vuole, feticismo da schiacciamento.
E’ una  moderna perversione che coinvolge ogni tipo di animale, da quelli più piccoli quali insetti, lumache, pesciolini, calpestati a morte, ad altri più grandi quali  oche, conigli, galline il cui tormento è più elaborato e la cui morte più atroce perché l’agonia si protrae: tutti al servizio del piacere di un pubblico , che la rete consente di vaste dimensioni, composto persino da collezionisti, alla ricerca di esperienze inedite in grado di stimolare fantasie avvizzite, che tornano ad eccitarsi alla vista di animali martoriati.   

L'UOMO E IL CANE




Non è semplice cercare di definire il rapporto complesso che lega l’uomo al cane: innanzi tutto non si può fare altro che contestualizzarlo nel tempo e nello spazio, riferendosi a quello che è osservabile  oggi, nel mondo occidentale, nell’ambiente prevalentemente urbano,  che è  il risultato di un processo lunghissimo iniziato con la domesticazione del cane circa  14.000 anni fa ed ha poi assunto forme diverse a seconda dei contesti. Oggi, negli spazi ristretti delle nostre città,  nelle relazioni intraspecifiche profondamente modificate con l’avvento della famiglia nucleare, anche la relazione tra l’uomo e il cane è esposta ad analoghi cambiamenti.
Come tutte le relazioni è biunivoca,  da leggere dal punto di vista di entrambi. Per quanto riguarda il cane , il suo modo di guardare all’uomo si riassume nell’affermazione pensierosa di Abbas Kiarostami, regista iraniano meno conosciuto ma non meno geniale come scrittore, che “per quanto ci pensi non capisco la ragione di un tale attaccamento del cane”: in altri termini il modo del cane di rapportarsi al suo compagno umano è in genere totalizzante, riferito ad  un attaccamento senza se e senza ma, ad un’affezione sfiancante che tende ad esprimersi nel bisogno di vicinanza, nella dipendenza, in una sorta di adorazione, che è lecito dubitare  possa essere giustificata dalle caratteristiche umane e pare  più probabilmente dipendere da quelle dell’animale, che le dispensa gratis.

CONTRO LA VIVISEZIONE



Tutto questo dolore   
“La barbarie più inumana”, “La più grave questione dell’umanità”: così definisce la vivisezione, nella seconda metà del 1800, Richard  Wagner nella sua “Lettera aperta al signor Ernst von Weber”. Oltre un secolo e mezzo più tardi le stesse definizioni conservano tutto il loro senso e la loro pregnanza; da allora le cose sono cambiate solo dal punto di vista formale, in sintonia con lo spirito della civiltà occidentale che, in merito ai delitti contro gli animali, e non solo,  ha messo in atto una enorme azione di occultamento e di allontanamento dalla vista e dalle coscienze, rimuovendo tutto quanto può turbare la sensibilità umana, metro e misura del lecito e dell’illecito.  Lontani sono infatti i tempi in cui la vivisezione veniva addirittura praticata alla luce del sole: si  era nella Londra della seconda metà dl 1600 e la Rojal Society poteva agire, forte degli enunciati di Cartesio  che,  identificando l’essenza degli  animali nel loro essere macchine e automi,  avevano  dato licenza di infliggere loro i peggiori tormenti. A testimonianza che qualunque pratica necessita di un contenitore di pensiero che la giustifichi e la renda possibile. Allora i terribili esperimenti erano resi  pubblici  e le relative illustrazioni venivano poste accanto a quelle di decorazioni delicate e  gentili, ad asserire anche graficamente non esservi alcun contrasto tra immagini di sangue e di indicibile crudeltà sugli animali e deliziosi ornamenti:  l’autorità di chi li proponeva ne sdoganava serenamente la  compatibilità.

mercoledì 12 giugno 2013

A PROPOSITO DI VIVISEZIONE


 Il senatore Ignazio Marino pubblica sull'Espresso del 17 maggio 2012 il seguente articolo a favore della vivisezione:



Questa la risposta

Non c'è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perchè della loro morte, Elsa Morante.
Gent. Senatore Marino,
in merito al suo intervento “Diciamo grazie a un babbuino” a cui l’Espresso ha ritenuto di dare tanto spazio, evito di entrare nel  merito delle sue affermazioni scientifiche,  per le quali non ho titoli, ma su cui ho comunque informazioni diverse sulla base delle tesi, opposte alle sue, di medici e biologi antivisezionisti  e autorevoli riviste scientifiche che, con argomentazioni incalzanti, definiscono “falsa scienza” la vivisezione.

I PICCIONI, TOPI CON LE ALI





La relazione che noi abbiamo con i piccioni è il risultato dell’evoluzione di quella che nel corso del tempo è andata costruendosi, a partire dal più lontano passato, attraverso le fasi storiche e la  simbologia che ha coinvolto questi animali.

STORIA
Innanzi tutto, la storia del nostro rapporto con i piccioni, come per altro quella del nostro rapporto con ogni altro animale, è da sempre una storia non di pacifica e rispettosa convivenza, come sarebbe bello poter credere, ma di  regolare e continuo sfruttamento.
Sappiamo che i  colombi  furono addomesticati alcune migliaia di anni fa; venivano allevati come animali da cortile fin dall'antichità; gli allevamenti erano diffusi in Grecia ai tempi di Omero (1000 anni A.C.), si vedevano nelle piazze e nelle strade di Atene,  ne parla Aristotele nel 300.  a. C. .

martedì 11 giugno 2013

SENSAZIONI DI VIAGGIO: GLI ANIMALI NEL SUBCONTINENTE INDIANO


Breve premessa sul contesto culturale e religioso
La costituzione indiana ha inserito tra i doveri fondamentali dei cittadini quello di “proteggere e migliorare l’ambiente naturale,  e avere compassione per le creature viventi” in conformità con il concetto buddista e gandhiano di rispetto per tutti gli esseri, umani e non umani, capaci di sofferenza (Pocar, La Nuova Italia 2005). Che il riferimento alla compassione, alla necessità di soffrire insieme agli altri, uomini o animali che siano, sia materia contenuta in un contesto che stabilisce i fondamenti stessi dello stato e del vivere civile pone l’India ad una distanza abissale  dal  nostro modo di pensare occidentale, alla lontananza delle chimere. “Le cose umane ci hanno mostrato purtroppo che la compassione è bandita dalla legislazione della nostra società” (R. Wagner, Sulla vivisezione - ETS 2006). Questo riferimento è possibile  grazie a  convinzioni, che a loro volta derivano dalla cultura e dalle  religioni che hanno forgiato l’essenza di questo subcontinente, che, a dispetto della disomogeneità dei suoi  comportamenti, continua a mantenere oggi, nell’immaginario collettivo, una connotazione di spiritualità, capace di calamitare ancora molte aspettative.